di Lino Zonin
Vicenza.“L’importanza di essere Franco”, ma anche l’importanza di fare teatro a scuola. La Compagnia Stabile del Leonardo che a Fitainsieme del San Marco ha presentato una riuscita versione del capolavoro di Oscar Wilde è nata appunto dall’esperienza di un gruppo di studenti del liceo “Da Vinci” di Treviso che dopo il 1992, ottenuta la maturità, hanno deciso di proseguire l’avventura artistica.
Un bell’esempio di come lo sforzo che tanti insegnanti compiono ogni anno in tante scuole per avvicinare i ragazzi al mondo del teatro possa dare buoni frutti. Gli ex allievi del liceo trevigiano hanno già avuto modo di farsi apprezzare dal pubblico vicentino con un paio di apparizioni alla Maschera d’Oro, concorso che li ha visti al primo posto nel 2001 con “Sabato domenica e lunedì”.
Decisamente diversa l’ambientazione del lavoro presentato l’altra sera al San Marco, una commedia eccentrica di ambientazione alto borghese con la quale l’autore deride quella società raffinata e falsa di cui lui stesso faceva parte e che lo castigò duramente, provocandone la rovina e facendolo finire addirittura in prigione.
Se in città uno può arrangiarsi anche chiamandosi John, in campagna deve essere per forza “Franco”, inteso come onesto, schietto, affidabile, così da conquistare la fiducia delle ragazze da marito e, soprattutto, delle loro arcigne governanti. Ecco allora che il giovane John Worthing finge di essere Franco con la bella Gwendalen, la quale afferma candidamente che il suo cuore non potrebbe andare a nessun altro che non avesse proprio quel nome. «Compatisco tutte quelle donne il cui marito non si chiama Franco» assicura, dopo aver precisato che il nome John, invece, non le procura alcuna vibrazione. L’innocente truffa crolla quando anche l’amico di Worthing, Algernon, usa lo stesso stratagemma con una cugina di Gwendalen, facendo sì che entrambe le concupite scoprano come nessuno dei due pretendenti sia in realtà “Franco”. Con una serie di colpi di scena presi in prestito dalle commedie scespiriane, dai finali a sorpresa di Goldoni e dagli intrecci pruriginosi di Feydeau, Wilde trova il modo di sistemare ogni cosa prima del calar del sipario, approfittando dell’occasione per lanciare una raffica dei suoi famosi aforismi. Eccone un piccolo campionario:
«Non vorrei mai fare una domanda di matrimonio: si corre il rischio di essere accettati»;
«Non sono favorevole ai lunghi fidanzamenti: danno la possibilità di conoscersi meglio»;
«Dio la fa e poi li divide»; «Nel matrimonio, tre è il numero perfetto. In due, è come essere soli»;
«Fumate? Si? Bene, un uomo deve avere un’occupazione»;
«L’ignoranza è come un fiore esotico, appena lo sfiori si rovina»;
«Perdere un genitore è una disgrazia, perderli tutte e due è sbadataggine».
Con uno così, che ha il coraggio di far dire ad un suo personaggio «Non ho mai appetito, se prima non metto un fiore all’occhiello della giacca», è impossibile stare seri e non divertirsi, anche se al fondo della sua spietata cattiveria balugina un riflesso di disperazione, si intravede la solitudine di un animo esasperato ed affranto.
Gli attori del Leonardo, diretti da Maurizio Damian, reggono bene la non facile prova con una recitazione serrata e convincente che solo in qualche momento, nella fase centrale del secondo tempo, segnala dei cali di ritmo. Tutti (Luca Nascimben, Martino Piani, Maria Giovanna Bortolanza, Barbara Dal Zillo, Erica Panigas, Paolo Tamai, Sara Cosano, Davide Vido) hanno ricevuto alla fine il caloroso applauso della platea del San Marco.
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